“La responsabilità di
tutto questo è di Milosevic, di quelli che stanno al potere. Ma non m’interessa
la politica. Quello che m’importa è vivere dignitosamente. Cerchiamo di
risollevarci con poco, anche guardando le foto di un tempo. È un modo per
consolarci. A questa ci tengo molto. Era il mio collega, il mio più intimo
amico. C’invitavamo a vicenda nelle nostre case, celebravamo insieme le feste
religiose, ortodosse o musulmane che fossero, eravamo davvero inseparabili”.

Questo racconto è di un
uomo albanese kosovaro che ricorda così Zoran, un suo vecchio amico serbo. “Era
amato da tutti ed era rispettato. Non ha mai parlato male degli albanesi.
Durante la guerra nessuno lo ha visto coinvolto in nulla, il problema era che
al lavoro c’erano altri serbi e sono convinto siano stati loro a bruciarmi la
casa. Avevo chiesto a Zoran d’indagare, mi aveva assicurato che l’avrebbe fatto
ma non mi ha mai detto nulla. Ma poteva parlare? Per lui è pericoloso. Sono
avvenute cose orribili, impossibili da dimenticare. Zoran non ha fatto niente
di male. Però per colpa d’altri si è allontanato dai miei pensieri. La guerra
ha distrutto la nostra amicizia”.
Questo è un estratto di uno dei quattro filmati che compongono il documentario
La
distruzione invisibile, un lavoro del giornalista della Rai Maurizio
Crovato. La distruzione del titolo è quella del patrimonio culturale
serbo-ortodosso in Kosovo, presentato
recentemente presso
il Centro Culturale Candiani di Mestre, alla presenza del sindaco di Venezia
Massimo Cacciari e del prelato Gennadios Zervòs, Arcivescovo Metropolita
Ortodosso d’Italia ed Esarca per l’Europa Meridionale.

“Sradicare persone dalla loro terra, dalle loro memorie,
dalla loro storia, è come ucciderli”, ha detto il sindaco di Venezia, “non è
semplice comporre culture o etnie e questa composizione non avviene mai su una
base politica, è una maturazione di coscienza. Il comprendersi fra culture,
etnie diverse è un fatto personale, o diventa un fatto di formazione di persona
e quindi non è sradicabile. Se invece è un fatto che deriva da leggi, norme,
assetti istituzionali, può rompersi in ogni momento, quasi senza che nessuno se
ne renda conto ed è difficilissimo capire anche il colpevole, la vittima, le responsabilità. La tragedia dei
Balcani insegna questo”. Singoli, famiglie, popolazioni trascinate, loro
malgrado, nella follia di predicatore o dittatore di turno, e così s’innesca
l’odio e il “gioco tragico” è fatto. Qualcuno parla e gli altri agiscono. Amici
che diventano nemici senza saperlo. Onesti lavoratori che hanno visto la
propria vita trasformarsi in una gabbia. Qualcuno un giorno deciderà che il
Kosovo sarà una nazione. O magari no. Qualcuno un giorno deciderà che albanesi
e serbi sono amici. E qualcuno gli crederà. Ma il mondo non può essere una
decisione di pochi senza interpellare i primi attori della vita,

Nel 1999 l’ONU ha concesso lo status di regione autonoma
per il Kossovo, all’interno della federazione di Serbia e Montenegro. Solo 6
anni fa i serbi rappresentavano il 10 percento della popolazione kosovara,
mentre oggi sono solo poche migliaia e per di più chiuse nei conventi o in
miseri quartieri protetti dalle forze armate internazionali. Se un serbo va
fuori dal seminato, è a rischio. Si nutrono approvigiandosi in negozietti, o
producendo per sè. La gente che vive in Kosovo non ha un soldo, come racconta
il documentario di Crovato, il quale sottolinea come “memorie antiche, recenti
e contrapposte, retoriche etniche che riscrivono la storia incessantemente.
Altri eserciti s’insediano su questa terra a garantire una pace precaria,
insidiata da odi e rancori difficili da dimenticare una volta risvegliati dal
passato remoto. Il ristorante distrutto ricorda che le differenze etniche sono
macerie difficili da rimuovere. Peace-keeping è la strana non-guerra che si
combatte qui, fatta di controlli, vigilanza, ma soprattutto di mediazioni sul
campo, che spesso sfuggono alle diplomazie internazionali, lontane e sparse tra
Bruxelles, Washington, e Mosca. Una non-guerra che si combatte con il colpo in
canna e gli ambulatori militari pieni di civili locali che hanno bisogno di
tutto, dalle diagnosi agli interventi chirurgici, alle medicine”.

Ma se è impossibile trascurare il fattore umano, non va
dimenticato il lato culturale. La testimonianza del giornalista italiano
racconta di luoghi sacri rasi al suolo, pericoloso campanaello d’allarme
d’intolleranza. Basta la vista di un elemento cristiano e scatta qualcosa.
“Negli ultimi mesi, 150, tra chiese, conventi ed edifici sacri sono stati
distrutti o seriamente compromessi”, spiegava Crovato, “mentre prima del 1999,
molte moschee erano state semi-distrutte”. Il Patriarcato di Peć, centro dei
patriarchi serbi,
è un complesso
artistico di grandissimo valore del XIII-XIV secolo, ma contenente anche
testimonianze dei secoli successivi. Si tramanda che sia stato fondato da San
Sava, primo santo serbo. E si trova nella regione del Kosovo.
Incredibile testimonianza nel reportage, è la cerimonia di
una giovane ragazza che prende i voti di monaca di clausura. L’evento, così
com’è sottolineato anche dalla voce narrante, ha tutte le caratteristiche di un
rito segreto, un cristianesimo dei primi tempi. Qui succede questo. In altri
luoghi, l’opposto. Le immagini scorrono, chiese presidiate dai fucili come il
Monastero di S. Arcangelo che per due volte, nel 1999 e nel 2003, ha rischiato di essere distrutto. La
telecamera gira sulla volta bizantina di S. Apostoli con le storie del Nuovo
Testamento e San Sava: affreschi di una tale bellezza da poter “sfidare in
emozioni” anche la giottesca Cappella degli Scrovegni di Padova. Il Kosovo, il
cui patrimonio artistico “sarebbe” tutelato dall’UNESCO, è un protettorato
internazionale delle Nazioni Unite. Ma perché si sa così poco di ciò che
succede e di ciò che possiede? Crovato ricorda le parole di un giornalista
polacco: “quando si distrugge un albero e ci sono dieci telecamere che lo
riprendono, lì è un fatto storico. Quando si taglia un milione di alberi in
Amazzonia ma non c’è nessuna telecamera, il fatto storico è come se non ci
fosse”.
La vita di esseri umani e della cultura s’intreccia in Kosovo. “La speranza è che
qualcosa si muova nella
giusta direzione”, commentava l’Arcivescovo Zervòs, “e si possano salvare
innanzitutto gli esseri umani ed anche le testimonianze culturali. Ma se nulla
dovesse succedere, resterebbe la testimonianza delle barbarie. La speranza è
che si possa tornare a vivere con rispetto”.
Luca Ferrari