Per le Mamme di Piazza Tienanmen il dolore non ha fine. Hanno perso i
figli nel 1989, quando esercito e polizia cinese repressero nel sangue
le manifestazioni studentesche per la democrazia. Poi domenica mattina,
le forze di sicurezza hanno bussato alla porta di tre donne
dell’associazione e le hanno portate via: Din Zilin, insegnante in
pensione di 67 anni, nella prigione di Wuxi, città a ovest della Cina;
Zhang Xianling e Huang Jinping in una di Pechino. Non hanno mai avuto
giustizia per la morte dei loro ragazzi e adesso hanno perso la libertà
senza aver commesso alcun reato. Il governo non ha emesso comunicazioni
ufficiali sulle ragioni dell’arresto. Le madri sono state punite per il
loro coraggio. Da 15 anni, infatti, si battono per fare chiarezza sulle
vicende di Piazza Tienanmen. Dopo aver spedito, invano, lettere ed
appelli alle autorità, hanno compilato un “inventario” dei morti e dei
feriti. Ding, fondatrice dell’organizzazione delle mamme, ha raccolto
ogni minimo particolare, ogni piccola testimonianza “su come e dove i
manifestanti furono colpiti. Abbiamo documentato questi crimini
brutali, perché i colpevoli sono tuttora impuniti”, si legge sul sito
ufficiale della Tiananmen Mothers Campaign. Il numero esatto dei
giovani massacrati non venne stabilito: furono 320 secondo le fonti
ufficiali, circa 1300 secondo Amnesty International.
La lista di Ding, per ora, ha raccolto gli ultimi attimi di 155 vite e
documentato le violenze subite da 65 feriti. Tra queste vittime,
bambini e adulti tra i 9 e i 61 anni, compare Jiang Jielian, il figlio
di Ding scomparso nella notte tra il 3 e il 4 giugno ’89, giorno del
massacro. “Al crepuscolo – racconta la donna - tutti i canali della
televisione di stato (Central TV Station) diffusero un “avviso urgente”
che intimava ai cittadini di Pechino di non uscire di casa. Chi fosse
sceso per le strade sarebbe stato considerato responsabile di qualsiasi
cosa gli fosse accaduta. Jiang era irrequieto. Insisteva per andare in
Piazza. L’ho abbracciato, cercando di trattenerlo, ma è riuscito a
liberarsi. Entrato in bagno, ha chiuso la porta a chiave ed è saltato
fuori dalla finestra. Non è più tornato indietro”. Jiang, 17 anni, alto
e coi capelli neri, era un ragazzo entusiasta e più maturo della sua
età. Nonostante fosse ancora al liceo, era già un sostenitore del
movimento studentesco, per i diritti civili, nato nelle Università. Il
19 aprile di quell’anno aveva partecipato alla sua prima dimostrazione
davanti alla Xinhua Gate, l’entrata del Palazzo governativo. Un mese
più tardi, il 13 maggio, sfrecciò con la sua bicicletta in Tienanmen
Square. Era notte e gli universitari avevano organizzato un sit-in. Il
giorno dopo andò a scuola lo stesso, malgrado la stanchezza. E cinque
giorni più tardi, il 17 maggio, seguì il fiume di un milione di persone
che occuparono le vie principali di Pechino. Era la prima volta in Cina
che i liceali si organizzavano per una marcia anti-governativa.
Quando la sera del 3 giugno montò sulla bici, ignorando il messaggio di
stato, escludeva come tutti gli altri giovani attivisti che le forze
dell’ordine potessero usare ogni arma per fermare le proteste. Così,
raggiunse un compagno di scuola, ma non riuscì ad arrivare a Tienanmen
dove i carri armati cominciavano ad avanzare. Una pallottola lo colpì
al cuore alle 10.30 della notte, nei pressi di una fermata del metrò.
Lo trovarono accasciato insieme all’amico ferito a una gamba, con la
sua maglietta gialla e una macchia di sangue sulla schiena. “Due
persone – dice Ding – rischiarono la vita per portarlo all’ospedale.
Iniziarono una corsa disperata: prima caricarono mio figlio su un
risciò, ma poiché procedeva troppo piano, fermarono un taxi. Jiang morì
durante il tragitto”. Fu sepolto con una fascia rossa legata alla
fronte, scelta dalle famiglie come simbolo del martirio per tutti quei
giovani uccisi. Il padre di Jiang ha inciso una frase sull’urna del
figlio: “Nei tuoi pochi 17 anni, hai vissuto come un vero uomo. La tua
umanità e la tua integrità vivranno nella memoria della storia. Ti
ameremo sempre, papà e mamma”.
Per i parenti di Piazza Tienanmen sono stati anni di intimidazioni. Di
frequente hanno ricevuto visite della polizia. Alcuni hanno perso il
lavoro, altri sono stati costretti a lasciarlo. Due genitori sono stati
definiti “criminali politici”. Il network creato da Ding, oltre a
reperire informazioni su quanto accaduto, raccoglie fondi per assistere
le famiglie dei morti e chi è rimasto disabile. “I politici cercano di
imporre un’amnesia collettiva e per fare questo censurano i mezzi di
comunicazione”, riporta il sito ufficiale delle madri. Nel rapporto
diffuso dal governo sui fatti del 4 giugno, “The Truth about the
Beijing Turmoil” , si legge: “Tremila civili rimasero feriti, oltre
200, compresi 36 universitari, perirono. Le truppe reagirono ad un
attacco. Alcuni rivoltosi furono ammazzati. Degli spettatori vennero
colpiti da pallottole vaganti o da teppisti armati”.
Il lavoro di Ding getta una macchia infamante sulle azioni ordinate tra
aprile e giugno '89 dal governo di Li Peng. Parla di persone disperse,
di cadaveri bruciati e gettati in una fossa comune. Questi ultimi erano
poi riemersi in superficie a causa delle piogge violente.
Testimoni oculari accusano i militari di aver portato via i morti dagli
ospedali e di averli fatti cremare senza alcuna autorizzazione per
occultare le prove dell'eccidio. I genitori sono stati anche invitati a
firmare fogli in cui si certificava che i loro cari avevano perso la
vita in incidenti stradali o in altre circostanze. C’era anche una
casella in cui si doveva classificarli come “ribelli”. E per coloro
considerati rivoluzionari non era previsto un rito funebre. Tanto che,
nei primi anni ’90, alcune famiglie dovettero togliere le urne di figli
e amici dai cimiteri pubblici.
L’arresto delle tre Mamme di Piazza Tienanmen avviene qualche settimana
prima della commemorazione delle manifestazioni studentesche, iniziate
il 15 aprile 1989. “Ding – dice il marito – stava preparando alcune
attività per celebrare questo giorno”.